“L’oscurato” e il “supremo narcisismo di Dio”

Rileggo “L’oscurato” sotto la luce cangiante e misteriosa dei cieli di Bretagna. Un libro in fondo è uno strano (s)oggetto, respira come noi, a volte ci fa ubriacare, altre volte si macchia di vino, perde il biancore dell’infanzia e diventa giallo o si carica di segni, sottolineature, post-it che lo fanno apparire più interessante, come fossero rughe sul volto di un marinaio. Il mio “oscurato” ha conosciuto anche la luce “ferma” e profonda che penetra a luglio nei boschi delle Madonie, in Sicilia.

“L’oscurato” in Bretagna

Il romanzo di Alfonso Leto (Navarra Editore, 2016), avvince fin dalle prime pagine, con atmosfere che ricordano “Il nome della rosa” o i racconti dell’“epica” ricerca del latitante Matteo Messina Denaro. Insomma, si legge come fosse un bel giallo ma è molto più di un giallo, i suoi colori sono veramente tanti. In ogni caso, non aspettatevi dolcezze e arcobaleni. No, i dolcini in questo libro fanno la stessa fine di quelli amabilmente donati dalle monache e gettati “dall’abbramato”, cioè l’eremita, in mezzo al bosco, come fossero “merde di capra”.

C’è il colore dell’eremo della Quisquina, in Sicilia, che è di un nero abbagliante come solo certi palcoscenici possono essere. È lì che la Sicilia e la Francia in qualche modo si incontrano, risvegliando spettri (e colori) che l’occhio umano sembrava aver dimenticato. La Storia, le storie che l’autore inietta nel romanzo, con gusto e senso della misura, si incontrano con la devozione popolare e un senso di religiosità prêt-à-porter. Il rosa della carne -quanto eros nel racconto della passione delle sante vergini- si incontra col giallo-aureola o l’azzurro-vestito dei santini che i fedeli barattano con banconote durante le feste di paese. Continua a leggere