Happy smart working! Stappiamo una bottiglia? L’Italia sembra avere scoperto il lavoro intelligente in questi mesi, il virus sembra averci fatto scoprire nuovi mondi, una sorta di Cristoforo Colombo del 21° secolo.
L’Ammerica non è più al di là dell’oceano, ma dentro casa, e anche se ogni tanto c’è bonaccia perché le reti sono sovraccariche o inadeguate e non si naviga veloci, le nostre caravelle, cioè i nostri pc sono così evoluti e intelligenti ormai da aver reso smart anche il lavoro. Diciamolo chiaramente: molti di noi si sono persino convinti di essere diventati più intelligenti dato che usano macchine intelligenti e viene detto loro che fanno un lavoro intelligente. Ci sarà qualche scienziato che prima poi riuscirà a dimostrare che l’intelligenza si trasmette per osmosi.
La domanda però era un’altra: la festa del lavoro è intelligente? Una domanda che poteva essere posta anche un anno fa o dieci o venti. Per rispondere però bisognerebbe avere chiaro il significato di due parole: festa e lavoro.
La festa per il dizionario Treccani è in sintesi il “giorno destinato alla solennità” e in senso figurato “tutto ciò che dà allegria”. Prima contraddizione: non abbiamo ancora detto cos’è il lavoro, ma lo festeggiamo non lavorando, segnandolo in rosso sul calendario. Un po’ come se esistesse la festa dell’amore e in quel giorno fossimo tutti messi a riposo sentimentale, come dire: “che culo, oggi posso pure evitare di darti un bacio”. Sul fatto poi che il lavoro rende allegri c’è da crederci, dato che in molti pensano che “il lavoro l’ha fatto il diavolo”, un personaggio certamente poco noioso e ricco di immaginazione. Chi ne sa una più del diavolo non è certo considerato un fesso.
Il lavoro, invece, sempre secondo il dizionario Treccani può essere declinato in varie forme, può essere subordinato, parasubordinato, a cottimo, part-time, occasionale, saltuario, autonomo, precario, atipico, a progetto, socialmente utile, a distanza -così definisce lo smart working il dizionario: semplicemente “a distanza”, siamo noi che gli abbiamo attribuito un quoziente intellettivo misurandolo in chilometri-, e ancora può essere interinale, in affitto, a chiamata, a domicilio, notturno, straordinario, doppio, minorile, nero, sommerso, alienato e tante altre cose. Alla base comunque il lavoro sarebbe “l’applicazione delle facoltà fisiche e intellettuali dell’uomo rivolta direttamente e coscientemente alla produzione di un bene, di una ricchezza, o comunque a ottenere un prodotto di utilità individuale o generale”.

Un’immagine del film “Tempi moderni” (1936) di Charlie Chaplin
Altra contraddizione: come fa il lavoro minorile o nero o alienato ad essere di utilità individuale o generale quando esclude da questa generalità proprio chi lo esercita? Perché lo chiamiamo lavoro? Solo perché qualcun altro, magari rispettabile ed in regola ne trae beneficio? In fondo anche i criminali, che siano falsari o ladri d’appartamento applicano le loro facoltà fisiche e intellettuali ma nessuno si sognerebbe di definire la loro “applicazione” come un lavoro, se non provocatoriamente. Eppure continuiamo a chiamare così i lavoratori, migranti ed italiani, sfruttati nei campi e nei cantieri per poche decine di euro al giorno. Tanto, pensiamo che a noi non accadrà. Ma ne siamo così sicuri? Eppure ogni tanto abbiamo bisogno che qualcuno ci ricordi che i lavori che non si sono fermati durante il lockdown, quelli essenziali (i riders che fanno le consegne, i cassieri dei supermercati, gli infermieri…) sono i meno pagati, anche rispetto al resto dei paesi europei. Continua a leggere →