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Netflix e la vendetta degli anti-padrini

Pino Maniaci e Silvana Saguto, volente o nolente, sono diventati delle star. La serie distribuita da Netflix in sei episodi che vede al centro della narrazione due personaggi “simbolo” dell’antimafia, ha fin da subito varcato i confini nazionali. Quella che nasce come una “piccola” storia locale sta lentamente diventando una chiave per aprire le porte che mostrano al mondo cos’è diventata la Sicilia. Non tutta la Sicilia, ma certamente quella che nei decenni ha fatto più parlare di sé, perché questa terra è stata la culla della mafia. 

Francis Ford Coppola con “Il Padrino” ha realizzato un capolavoro anche perché ha messo le mani nel tempo presente, nella contemporaneità. E da decenni ormai, mentre anche la mafia aveva cambiato i suoi connotati, in Italia si continuavano e si continuano a produrre film e telefilm-e molto più raramente documentari o docu-serie-, spesso solo per la tv, che raccontano fatti di sangue vecchi di almeno 30 anni. Certo, la memoria ha la sua importanza, ma per sapere qualcosa dell’oggi ci si è affidati solo alle inchieste delle pochissime trasmissioni che portano avanti questo genere di giornalismo in Italia, da Report a Presa Diretta a poco altro. Nulla di veramente “trasversale” e tantomeno di internazionale.

Adesso, con la docu-serie “Vendetta – Guerra nell’antimafia”, ideata e realizzata tra l’altro da due giovani registi siciliani, Davide Gambino e Ruggero Di Maggio, la Sicilia e Palermo tornano a lanciare un messaggio che ha il sapore dell’universalità. E guardacaso non è più la mafia, ma l’antimafia a diventare l’oggetto della narrazione. Narrazione che è precisa, chirurgica, finemente documentata, esteticamente ed antropologicamente accattivante, stilisticamente vicina al modello di giornalismo anglosassone che distingue i fatti dalle opinioni. Insomma, gli autori conoscono bene il loro mestiere e sanno cosa raccontare.

Ma noi non viviamo a New York per cui possiamo farci un’idea di Mister Maniaci solo dopo aver visto la serie, né viviamo a Parigi per cui possiamo parlare di Madame Saguto alla stessa maniera.

Avevamo già le nostre idee, e qualcuno di noi, come il sottoscritto, ha raccontato i suoi dubbi quando tutto questo è iniziato, quando sono comparse la foto di Maniaci sui tg e in prima pagina di qualche quotidiano dell’isola accanto alle foto di mafiosi arrestati tra Partinico e Borgetto nella stessa operazione. Sono molti gli articoli che ho scritto in quel lontano maggio e giugno 2016 su Maniaci. Era un argomento scottante; solo a raccontare quello che non convinceva di quella rappresentazione mediatico-giudiziaria o a ricordare gli effettivi meriti sin lì avuti da Maniaci nel narrare quanto altri sapevano ma non volevano dire, si veniva tacciati di essere dei “novelli garantisti”, dei “fastidiosi” e tanto altro. Altri guai capitarono allora ad associazioni antiracket come “Libero Futuro”, e uno dei responsabili come Enrico Colajanni, si vide costretto a fare lo sciopero della fame. Insomma, il clima non era proprio sereno.

Maniaci fu massacrato su giornali e tg e, come spesso accade, la sua vittoria nel processo di primo grado per l’inconsistenza dell’accusa di estorsione -resta la condanna per diffamazione- passò quasi in sordina. 

La giudice Silvana Saguto, invece, forse per ignoranza mia, non era considerata un simbolo. Sì, da anni si discuteva dei beni sequestrati e di come quasi sempre andassero in rovina, ma come spesso succede per le mancanze o i disastri dello Stato, dalla sanità alla viabilità a tutto il resto, difficilmente si associa un volto a una responsabilità. Ne iniziò a parlare Maniaci e uscì “dall’anonimato”, ma perlopiù era sempre un nome noto ai soli addetti ai lavori. Quando la sua foto uscì sui giornali e nei tg, in pochi la difesero. Perché? Forse perché non era un simbolo, ma un ingranaggio, sia pur molto importante, del sistema. 

E adesso, grazie a questa serie, abbiamo avuto la possibilità di conoscere la sua voce, il suo guardaroba, la sua casa, i suoi familiari, le sue ragioni e il suo modo di esporre quelle ragioni. La frase che più mi rimane impressa è: “sono furibonda”. Mai un ripensamento, un attimo di esitazione, qualcosa che facesse pensare al fatto di avere qualche dubbio sulla sua condotta. Una donna tutta d’un pezzo, che si muove nelle aule dei tribunali come una leonessa nella foresta. Una donna abituata a detenere lo scettro del comando, eppure nella ricostruzione dei fatti che le gira intorno e che il tribunale in primo grado ha ritenuto di condannare a otto anni, difficilmente è un personaggio nel quale gli spettatori potranno identificarsi.

E qui viene fuori la domanda ai miei conterranei: è un’eccezione la dottoressa Saguto oppure questo tipo di “baldanzosità” la si può riconoscere anche in altri “potenti” che reggono le sorti dell’isola? Qui il discorso si fa prettamente antropologico e mette da parte gli aspetti giudiziari o criminali. Sì, perché la sensazione è che se gli atteggiamenti della Saguto sono replicabili in altri ambiti dell’amministrazione della cosa pubblica, la questione da porci è: che tipo di persone siamo noi? 

Siamo sudditi che quando il padrone alza la voce ci nascondiamo sotto il tavolo, o siamo cittadini in grado di vedere, sentire e parlare di conseguenza? Il tempo delle tre scimmiette -non vedo, non sento e non parlo-sembra essere finito con gli omicidi eccellenti di mafia. E adesso? È solo una guerra nell’antimafia o è una guerra nello Stato quella che si profila all’orizzonte? E non sto parlando semplicemente di veleni nelle procure, o guerra tra procure diverse, o equilibri politico-economici che si contendono il territorio. Nello Stato, che lo si voglia o no, siamo compresi noi cittadini.

Per chiudere, tornando alla docu-serie “Vendetta”, se ha avuto l’effetto di creare delle star, regalando un boccone amaro a quanti avrebbero voluto che “il caso Maniaci” si dimenticasse in fretta, ha avuto anche il merito di dire che la Sicilia non è più terra di padrini destinati a diventare popolari anche oltreoceano.

Il palco di Don Vito Corleone adesso è occupato dal dottore.

Oppure è Don Vito ad essere diventato dottore?

Gianpiero Caldarella