L’antimafia da bere e quella da stroncare. Il caso Colajanni

Cos’è diventata l’antimafia? Tre anni fa pubblicai un libro dal titolo “Frammenti di un discorso antimafioso” dove -per farla breve- prendevo in rassegna fatti e comportamenti che nella storia di questo Paese e della Sicilia in particolare, lasciavano intendere che la mafia non è mai stata combattuta veramente fino in fondo. Troppi errori, troppe connivenze. Chi ha provato a combatterla con tutto sé stesso è stato spesso isolato dalle istituzioni, dai colleghi di lavoro, dalla società in genere. Ma era il 2015 ed emergeva prepotentemente un nuovo fenomeno, quello dei “mascariati”, di quelli che indossavano la maschera dell’antimafia d’apparato (casi Helg, Montante..) per poter più agevolmente mettere in atto condotte illecite o addirittura paramafiose.

Negli ultimi tre anni, poi, sono successe varie cose che mi hanno inquietato, come l’accanimento investigativo contro il giornalista di “Telejato” Pino Maniaci che aveva denunciato per mesi in totale solitudine la condotta del giudice Silvana Saguto, responsabile della sezione Misure di Prevenzione del Tribunale di Palermo, cioè dei beni confiscati. Tre anni di intercettazioni per contestare una presunta tangente di 364 euro se non ricordo male (300 + iva insomma). E adesso anche “Libero Futuro”, l’associazione antiracket fondata da Enrico Colajanni, si trova “condannata” a non poter fare il suo lavoro (più di trecento imprenditori assistiti in questi anni nelle denunce contro il pizzo) a causa di una interdizione prefettizia, in quanto sospettata di avere sostenuto imprenditori collusi con la mafia. Un’accusa infamante, certo. Il fatto è che Enrico Colajanni lo conosco da molti anni, ancora prima che muovesse i primi passi nel mondo dell’antimafia e so quanto sia generoso e corretto, fino allo sfinimento. Sarebbe incapace di approfittarsi di chiunque ma molto capace di aiutare tanta gente.

LO SO.

Ne ho avuto più volte dimostrazione. Cosa distingue allora Enrico dai tanti paladini e soloni dell’antimafia che non hanno mia avuto problemi o porte chiuse in faccia? A mio avviso la differenza sta nella grande onestà intellettuale, nella capacità di non tacere anche quando la giustizia si trasforma in una sorta di affare privato, dove è meglio non mettere il becco sui comportamenti equivoci o palesemente scorretti da parte di alcuni settori delle istituzioni. Chi glie lo faceva fare sennò a prendere le difese di Maniaci o del prefetto Caruso che per primo sollevò il caso dell’anomala gestione dei beni confiscati? In fondo per i farisei della legalità erano solo dei perdenti, meglio lasciarli perdere. Solo così sarebbe stato più facile fare “carriera”. Meglio non sporcarsi le mani e affidarsi alle veline del palazzo.

Il fatto è che se si opera nell’antiracket, cioè se si cerca di convincere e sostenere degli imprenditori a denunciare coloro che li taglieggiano, bisogna anche essere autorevoli, cioè credibili. In poche parole, le vittime del racket sanno che rischiano, pertanto non intraprenderebbero mai un percorso di denuncia se sospettassero che il loro interlocutore sia un “fasullo”. Deve quindi essere qualcuno che non ha paura di parlare chiaramente e di rischiare anche lui.

Gli uomini dalla doppia faccia, i farisei, invece hanno dallo loro l’autorità, ma a volte mancano di autorevolezza. E quella non la dà il 27 del mese o le buste paga belle gonfie, ma è la storia personale che parla per noi. Quando si crea un cortocircuito, come in questo caso, chi ci perde siamo tutti noi. Sacrifichiamo gli uomini migliori affinché i mediocri conservino le loro posizioni di privilegio. Così si mettono le basi per un Futuro Poco Libero.

In questo momento Enrico Colajanni è in sciopero della fame. Mi piacerebbe poter fare di più per quest’uomo che ha reso migliore la Sicilia.

Gianpiero Caldarella

PS: Ti invito a sostenere Enrico Colajanni attraverso questa pagina:

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