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Dalle scarpette rosse alle babbucce rosse: Indietro tutta!

Sono passati più di tre giorni dal 25 novembre, giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, eppure le “scarpette rosse” fatte indossare dall’amministrazione comunale di Isnello alla “Madre Madonita”, magnifica scultura in bronzo di Pietro Giambelluca, sono ancora lì.

In altre circostanze si potrebbe dire che è un buon segno, che le lotte per un mondo migliore non si esauriscono nelle commemorazioni.

Poi ti capita di passare vicino alla statua della Madre Madonita, uno dei rarissimi casi nel mondo di scultura equestre con soggetto femminile e capisci che qualcosa non va. Le maestose montagne delle Madonie sono sempre lì, ma da lontano si percepisce che la luce è diversa dal solito, sui faretti sono stati infatti montati dei fogli di gelatina rossa che rendono la luce calda, creando un’atmosfera quasi da night club.

Fai qualche altro passo, ti avvicini e vedi che ai piedi della Madre Madonita sono state fatte calzare delle “babbucce”, delle scarpe da notte di colore rosso, quasi certamente fatte a maglia da qualche volenterosa, generosa e capace donna del posto.

Le babbucce hanno sostituito le scarpette rosse come se nulla fosse.

Eppure la sensazione è ancora che qualcosa non va per più motivi.

La “Madre Madonita” (P. Giambelluca, 1987) con le babbucce a Isnello (PA)

Il primo -e meno importante- è estetico; a dirla tutta non è un bel vedere. Anche un’installazione dovrebbe essere ragionata e non improvvisata. Certo, adesso che le temperature si sono abbassate la Madre Madonita sentirà meno freddo con queste babbucce, ma con le piogge si sono inzuppate, facendo letteralmente colare i piedi della povera statua.

La seconda ragione e forse la più importante è di natura simbolica. Le scarpette rosse come simbolo della violenza contro le donne sono il frutto di un’installazione dell’artista Elina Chauvet a Juàrez, città del nord del Messico, nel 2009. Da quel momento quel simbolo è stato adottato in tantissimi paesi del mondo.

E qui abbiamo a che fare con i simboli perché le scarpette rosse sono il simbolo dell’indipendenza e dell’emancipazione femminile, della libertà delle donne di vestirsi nel modo che si preferisce, anche seducente, senza per questo essere tacciate di provocare i peggiori istinti degli uomini. Anche le babbucce fatte a mano, per quanto utili e gradevoli nelle situazioni domestiche, rimandano ad un universo simbolico che è l’esatto opposto dell’emancipazione femminile. Rimandano ai tempi in cui alla donna, “angelo del focolare”, era precluso avere la stessa libertà di movimento degli uomini perché, come recitava un vecchio detto, dovevano “stare a casa a fare la calza”.

Certo, queste considerazioni di natura semiotica non saranno passate nella testa degli ideatori di questa “installazione”, ma in modo quasi istintivo sono state percepite da coloro che la osservano e che il più delle volte non si fermano a riflettere. Semplicemente ridono.

Il terzo e ultimo motivo attiene alla natura dell’opera, cioè della scultura del maestro Pietro Giambelluca, che in questo modo è stata violata nella sua natura. Non si dovrebbe agire sull’arte in questo modo, piegandola alle “grandi pensate” dell’amministratore di turno.

La Madre Madonita è lì dal 1987, e non ha mai dovuto sopportare questo tipo di “travestimento”, come fosse il “Mannekin Piss”, la statua del bambino che fa la pipì che è anche il simbolo di Bruxelles, ma quella è un’opera nata irriverente e da più di tre secoli la città la traveste in centinaia di modi.

Tutt’altra storia è quella della Madre Madonita collocata sul viale Impellitteri nel 1987, anno in cui vedeva la luce anche la famosa trasmissione “Indietro tutta” di Renzo Arbore.

E qui con questa installazione potremmo entrare di diritto nei canoni di quella trasmissione, colorata, irriverente e a tratti trash.

La troppa convinzione, unita alla mancanza di riflessione, a volte gioca brutti scherzi, ma la strada è ancora lunga.

Quindi, indietro tutta.

Gianpiero Caldarella

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La “montagna di merda” non profuma di rose

Stamane il notiziario delle 8 su Radio1 non ha detto neanche una parola su Aldo Moro e Peppino Impastato, uccisi entrambi il 9 maggio 1978. In realtà c’era un solo generico accenno alla giornata della memoria delle vittime del terrorismo, solo una data per Moro e il nulla su Impastato. Certo, Radio Rai, che rimane un ottimo esempio di servizio pubblico, capace di coniugare qualità dell’informazione e pluralismo, oggi dedicherà delle trasmissioni a questi due grandi uomini del nostro recente passato. 

Moro e Impastato, all’apparenza così distanti nei modi e nello spazio, avevano in realtà qualcosa in comune: entrambi lottavano per qualcosa che avrebbe cambiato in meglio il Paese. 

Moro era uno dei protagonisti di quel processo chiamato “compromesso storico” e la stretta di mano tra il segretario della DC e l’allora segretario del PCI, Enrico Berlinguer, era qualcosa di impensabile per chi voleva continuare a costruire muri. Uno “scandalo” per i falchi dell’epoca, per gli instancabili promotori della guerra fredda e con le dovute proporzioni, quando oggi sentiamo Zelensky che apre alla Russia dicendo di essere disposto a “cedere” la Crimea pur di far cessare la guerra e un attimo dopo sentiamo intervenire il presidente della Nato che sconfessa Zelensky dicendo che la Crimea non si tocca, si ha la sensazione che il presidente ucraino rischia di più a non allinearsi alle posizioni della Nato che a continuare la guerra con Putin. Detto ciò, è chiaro che la distanza in termini di spessore politico e umano tra Moro e Zelensky è un abisso. 

Impastato, giù in Sicilia, a Cinisi, a suo modo lavorava anche lui per una sorta di “compromesso storico”, quello tra attivisti contro la mafia e società civile, ridicolizzando la mafia e cercando di far sì che a lottare contro di essa non fossero solo le parti migliori della politica (penso a Pio La Torre o a Piersanti Mattarella) o delle forze dell’ordine o della magistratura (e qui non faccio nomi perché l’elenco sarebbe troppo lungo). Quando Impastato, da militante comunista, diceva che “la mafia è una montagna di merda”, non intendeva dire solo che è orribile o che puzza da morire, ma che tutti possiamo calpestare quella merda, che un solo uomo, anche il più scrupoloso dei professionisti, non può fare tanto, ma una società attenta, coesa e solidale può spazzare via quella merda e può anche sbeffeggiarla.

Oggi sembrano scomparsi o quantomeno ridimensionati dalla “grande” informazione, come se fossero tornati ad essere scomodi. A dire il vero il percorso di “riabilitazione” della figura di Impastato è stato lungo e per più di un decennio la macchina del fango su di lui ne ha dette di tutti i colori (estremista, terrorista, ecc. ecc.). Alla fine, grazie al processo, alla caparbietà dei suoi compagni e alla popolarità del film “I cento passi”, è stata ristabilita la verità. Ciò non toglie che l’antimafia sociale, quella dal basso, senza finanziamenti e sponsor istituzionali, oggi più di ieri, non ha vita facile. E fare antimafia, soprattutto in Sicilia, non significa ripetere facili slogan (quello lo sapeva fare anche Cuffaro), ma impegnarsi nella ricerca della verità, denunciare le storture, schierarsi con il più debole e a volte semplicemente avere il coraggio di dire che “il re è nudo”.

Moro invece, in quanto grande statista ed uomo di Stato, è stato dipinto da subito come un “martire”, probabilmente anche da quelli che hanno responsabilità sulla sua morte, ma dopo 44 anni il processo di verità che dovrebbe svelare le trame che ci sono state dietro il suo assassinio, sono ancora oscure. Ma quello che più importa è che il metodo politico di Aldo Moro è stato archiviato anche da quelli che sarebbero dovuti essere i suoi eredi. Di “compromessi” non si parla quasi più, si rialzano i muri e le armi inviate in giro per il mondo, a partire dall’Ucraina, sostituiscono il ruolo della diplomazia e delle parole.

Pertanto oggi diventa più importante che mai ricordare i loro esempi di vita, avendo il coraggio di scomodare i potentati, a qualunque livello, dal nazionale al locale, prima che qualcuno, poco alla volta, con la propaganda e le “amicizie che contano”, faccia passare il messaggio che “la montagna di merda” profumi di rose. 

Gianpiero Caldarella

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Panta rei. Due libri per uscir fuori dal pantano

Ogni tanto bisognerebbe mettere un punto fermo su questioni che sembrano da sempre scivolosissime. E la mafia è una di queste questioni, forse la principale per un Paese che ha fatto di questo marchio, o “brand” se preferite, uno dei maggiori veicoli dell’italianità.

Di storie ce ne sono tante, di cronisti meno che una volta, di storici pochi, di narratori illuminati quasi nessuno.

Certo, questa riflessione arriva a distanza di due anni dalla pubblicazione de “Il padrino dell’antimafia”, sottotitolo “una cronaca italiana di un potere infetto”di Attilio Bolzoni e ad un anno di distanza dall’uscita in libreria de “La notte della civetta”, sottotitolo “storie eretiche di mafia, di Sicilia, d’Italia”, di Piero Melati. Entrambi i libri sono pubblicati da un editore milanese, “Zolfo”.

Ora, dato che tutto scorre, questi due libri dovrebbero essere ormai “datati”, fuori dai radar della grande – o piccola – promozione del mercato editoriale e, non trattandosi di romanzi o storie di fantasia, i fatti che sono raccontati al loro interno dovrebbero essere stati superati dalla realtà.

Niente di più falso. La realtà, o meglio, le realtà che sono raccontate in questi due libri riescono a modificare il modo in cui percepiamo il nostro presente, dandoci qualche strumento per anticipare le mosse che verranno, come in una partita a scacchi. Dall’altra parte della scacchiera c’è la mafia.

Una mafia che non è altro da noi, dalla Sicilia o dall’Italia, che non è solo un’organizzazione criminale, ma una rete di relazioni, di convenienze, di rette che non dovrebbero incontrarsi se non all’infinito e che invece si incrociano proprio davanti all’uscio di casa e spesso entrano anche dentro. Una mafia che non si potrà mai battere se prima non la si comprende.

E per comprenderla bisogna sentirne il respiro, ma occorre anche avere la fortuna di imbattersi in qualcuno che la sappia raccontare senza nessuna presunzione di fare il professore, senza fermarsi, in un movimento continuo che somiglia ad una danza attorno ad un oggetto che cambia continuamente forma. Una danza ha sempre una musica che la accompagna. 

Nel caso di Melati, de “La notte della civetta”, questa musica è un blues a tratti straziante. C’è un desiderio di libertà che nasce dal dolore; in catene non c’è uno schiavo nelle piantagioni di cotone, ma un’intera città, Palermo, che attraversa gli anni ‘70 e ‘80 quasi in apnea, in una grande vasca ricolma di sangue ed eroina. All’autore spetta il gravoso compito di essere un testimone di quegli anni, di quei fatti, che segue da cronista per il giornale L’Ora, fino al maxiprocesso. Un testimone non impermeabile, a tratti si ha la sensazione di sentire tra le righe il suo battito cardiaco che accelera nel ricordare certe strade, suoni di sirene, incontri nei palazzi di giustizia. Un uomo che con grazia e lucidità mette il lettore in guardia dal rischio di trovarsi di fronte ad una realtà che per troppo tempo è stata tragicamente taciuta, e non solo per via del politicamente corretto, o di interessi specifici o deviati, ma più semplicemente per quelli che sono i limiti della “diretta”.

Un atto che somiglia al togliersi i sassolini o i macigni dalle scarpe. Non un atto di vendetta, ma un atto di amore verso la propria gente e le tante storie che partendo da Palermo hanno contribuito in modo determinante a costruire l’identità non solo della Sicilia, ma anche dell’Italia.

Anche se Melati non si pone mai la domanda, questo ispirato lavoro darà al lettore degli strumenti irrinunciabili per capire cosa è la mafia, com’è possibile che siamo arrivati a questo punto, cosa dovremmo attenderci e come i nostri corpi e le nostre menti, per quanto si sentano assolti, siano lo stesso coinvolti.

Tornando alla danza, nel caso di Bolzoni, autore de “Il padrino dell’antimafia”, la musica che accompagna il suo lavoro potrebbe essere un rock con contaminazioni di elettronica.

Finalmente qualcosa di nuovo. Qualcosa che ci permette di capire a distanza ravvicinatissima come l’ascesa e la caduta di uno dei maggiori protagonisti dell’antimafia istituzionale – non un “eroe”, neanche tra virgolette – possa raccontare della trasformazione della mafia negli ultimi due decenni almeno. Non si tratta solo di mettere a fuoco la crisi in cui versa da anni il movimento antimafia attraverso il racconto della parabola umana e giudiziaria di Antonello Montante, ex delegato nazionale di Confindustria per la legalità. Quello è lo spunto per entrare in un labirinto dove potere economico, potere delle istituzioni e potere mediatico si incrociano in nome di un interesse che non è certo l’interesse dei cittadini. Il risultato è la creazione di un “mostro”; ma del “santino”, dell’immaginetta di Montante ce ne facciamo ben poco se non comprendiamo che quello è solo l’effetto. 

Volete che vi parli della causa o delle cause? Non lo farò, quelle sono sempre le stesse, in più di 150 anni della storia della mafia.

Quello che qui interessa è il metodo, il procedimento, il come OGGI si riescano ad ottenere certi risultati. E Bolzoni in questo è magistrale, nel prenderci per mano e condurci in un labirinto dove ad ogni angolo si fanno incontri inaspettati, dove si comprende plasticamente che il potere su cui si fonda la nuova identità delle vecchie organizzazioni criminali si basa più sulle informazioni e sull’immagine che sulle armi. Un percorso che a tratti rischia di far venire le vertigini, come l’assolo di una stratocaster che si fonde con i suoni di un sintetizzatore di ultima generazione. Un “sistema” tanto modernamente ben strutturato quanto quasi perfetto quello raccontato da Bolzoni. L’unico tarlo che poi farà crollare il castello sarà proprio il “fattore umano”, il carattere di Montante, troppo eccessivo. Un libro che, attraverso il peggio dell’antimafia vista in questi anni, parla della mafia, di cosa è diventata, di come è in grado di organizzarsi e compromettere lo Stato, del come si muovono certe pedine nella scacchiera e di come certe antiche metafore su pupi e pupari funzionino ancora a dovere.

La modernità in fondo non è altro che la tradizione 2.0.

Due libri per uscire dal pantano scrivevo nel titolo. Il pantano costituito dalla retorica e dalle liturgie che spesso rappresentano uno di quei veli che ci impediscono di capire di cosa stiamo parlando quando parliamo di mafia. Quando ne parliamo oggi.

E oggi, come ieri, non c’è contenuto che non meriti di avere una forma.

O, se preferite, anche il contrario.

Buona lettura! Se siete arrivati fin qui le vere letture per voi inizieranno un po’, quando avrete fra le mani questi due libri. 

Gianpiero Caldarella

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Il Nazareno, il Vaticano e i panchinari della repubblica

“Morto un papa se ne fa un altro” era la regola Oltretevere. Poi arrivò Ratzinger e scompigliò le carte. Fu la fine di un proverbio e tutti dovemmo fare i conti con una nuova figura: l’emerito.

“Il segretario non può che essere una persona pulita, anzi pulitissima, meglio ancora se usa e getta” era la regola del Nazareno. Otto segretari del Pd fatti fuori in 13 anni.  Solo i ct del Palermo calcio nell’era Zamparini duravano meno. Poi arrivò Zingaretti e scompigliò le carte. Se sarà la fine della “sindrome da Conte Ugolino” che attanaglia il Pd è presto per dirlo.

Il fatto è che Enrico Letta oggi si trova nella stessa posizione che occupò Jorge Maria Bergoglio il 13 marzo 2013, quando venne proclamato Papa. Se nel Pd avessero anticipato di un giorno la votazione del nuovo segretario, avrebbero potuto festeggiare la “fumata bianca” ed insieme l’anniversario del pontificato di Papa Francesco. 

Ma veniamo a noi e facciamo un passo indietro. Iniziamo col chiederci se esistono delle ragioni per cui le situazioni dei due “emeriti”, Ratzinger e Zingaretti, possano essere paragonate. Entrambi si sono dimessi con magna sorpresa di tutti e con il presagio di tante amarezze per non pochi. Chi crede che sia solo Renzi a dover “stare sereno” vede solo la punta dell’iceberg.  Entrambi hanno in qualche modo tracciato la strada per la loro successione, puntando su dei “panchinari” di lusso, dall’aspetto mite, ma molto determinati e con le mani meno legate delle loro. Entrambi avevano un grosso problema, le correnti interne e la gestione dei denari. Se Oltretevere il problema erano anche e soprattutto gli appetiti legati alla gestione delle finanze vaticane e dello Ior, il problema interno al Pd (e non solo) sarà quello degli appetiti legati alla gestione del “Next Generation EU”, i 209 miliardi in arrivo dall’Europa.

E adesso facciamo un passo avanti. Il primo passo di Papa Francesco è stato quello di spogliarsi dei simboli del potere terreno, dall’abbigliamento sfarzoso, ai gioielli ingombranti, alle auto di rappresentanza, alle residenze di lusso. Il tutto per riavvicinare i credenti alla Chiesa, rivoluzionando nelle forme e nella sostanza l’identità del Vaticano e facendosi non pochi nemici all’interno delle gerarchie ecclesiastiche. Il primo discorso di Enrico Letta è stato improntato sulla necessità di riavvicinare i giovani -con un endorsement, guardacaso, a Papa Francesco- e le varie “anime” del centrosinistra al Pd e soprattutto quello di smetterla di essere “il partito del potere” (che tradotto dal politichese, significa, smetterla di essere percepiti come tali). Fin qui solo parole, ma chi cerca di intravedere affinità e divergenze fra i due “Enrico”, Berlinguer e Letta, mettendo sotto la lente di ingrandimento i discorsi del segretario più amato del vecchio Pci, credo stia commettendo un errore. Forse sarebbe più opportuno tenere d’occhio l’emerito, Zingaretti, per comprendere quali saranno le prossime mosse di Letta. Che non è solo colui che dovrà rivoluzionare il partito, non è solo il protagonista di un nuovo corso come lo è stato Bergoglio, ma è anche una vittima della vecchia politica. Che in fondo, tanto bella non è, con buona pace di Veltroni. E questo chi ha pagato il prezzo delle proprie (ed altrui) scelte sulla sua pelle lo sa bene. La maturazione di un essere umano -figuriamoci di un leader-, in fondo, consiste anche nel saper distinguere tra vendetta e giustizia, tra avversari e nemici, tra politica ed affari.

Un segretario pulito a questo punto potrebbe servire poco al Pd o all’Italia. Che vista da Parigi, dove lavorava Letta o da Francoforte, dove viveva Draghi, forse dava un’immagine più nitida di sé, delle sue ricchezze e dei suoi mali. Adesso è il momento delle grandi riserve della Repubblica.

Chissà che i “panchinari” non facciano meglio dei titolari

Gianpiero Caldarella

Voci di carta dal 25 aprile

Il calendario del Duce oggi a una certa

suderà freddo in un’edicola deserta,

qualcuno lo appenderà a testa in giù

le mani tese verso una scollatura flou,

le orecchie ritte ad ascoltare parole fitte:

Vedi? Non sgorga latte dalla tua lupa,

oggi non son più matrona, mi chiaman pupa,

questi seni sono tutta scena e silicone,

una volta che t’abitui non fa impressione,

l’impero che sognavi oggi è tutto gossìp,

i picchiatori stan sul trono e vogliono fare i vip,

ospiti applauditi in trasmissioni scintillanti

che promettono ascolti strabordanti.”

Sì sì” risponde a denti stretti il pelatone

ma vedi quanti ancora ripetono il mio nome?”

E come no?” risponde uno da un quotidiano lì vicino

co tutti sti repubblichini e pelatini

ci facciamo un sugo all’amatriciana

che a consumarlo ci vorrà una settimana”. Continua a leggere

Preterintenzionale

Preterintenzionale. Quanti italiani capiscono il significato di questa parola?

Nella maggior parte dei casi, visto che comincia con “prete”, il vicino di casa supporrà che ha a che fare con il perdono. Del resto in Italia si perdonano tante cose. Si conoscono i peccati ma i nomi dei peccatori rimangono sconosciuti. Non importa che siano pubblici ufficiali che hanno abusato del loro potere o banchieri che hanno trasformato i depositi dei cittadini nelle loro riserve di caccia.stefano-cucchi1

Ego te absolvo” dice lo Stato e scompare il dolo, scompare la colpa, scompare il rimorso, scompare la giustizia e la consolazione.

Del resto, anche il reato di tortura può essere preterintenzionale. No, mi sto sbagliando, quello non esiste ancora, non l’abbiamo ancora scoperto. Aspettiamo il salvatore, indecisi sulla sua identità. Sarà un nuovo Cristoforo Colombo o un nuovo tenente Colombo?

Gianpiero Caldarella

La Saguto, Cuffaro e l’“AVVISO AI DIFFAMATORI”. A volte ritornano!

Parliamo io e te. Parliamo della paura”. Con queste parole Stephen King si rivolgeva ai lettori nella prefazione di “A volte ritornano”, la sua prima raccolta di racconti pubblicata nel 1978.

Qualcuno di voi già si chiederà che legame c’è tra il giudice Silvana Saguto, ex presidente della sezione Misure di Prevenzione del Tribunale di Palermo e destinataria di un recente provvedimento di sequestro preventivo dei beni, l’ex presidente della Regione Sicilia Salvatore Cuffaro, sulla cui parabola politica non occorre aggiungere altro e il libro appena citato del maestro dell’horror Stephen King.

Il filo rosso che li lega è proprio quello della paura. Sono i diffamatori che fanno paura alla Saguto, così come facevano paura a Cuffaro.a-volte-ritornano

È di oggi la notizia che i legali di Silvana Saguto, cioè Giulia Bongiorno e Ninni Reina, hanno diffuso questa nota: “Abbiamo ricevuto mandato dalla Presidente Saguto al fine di agire contro tutti coloro che sono responsabili della diffusione di notizie erronee e fuorvianti su un procedimento in cui ancora non sono stati nemmeno depositati gli atti di conclusione delle indagini”.

Silenzio ragazzi! Attenti a quello che scrivete. In effetti la mano mi trema già. Paura?

Poi ripenso a quanto successo nel 2006, quando sul sito dell’ex governatore Cuffaro comparve l’ “Avviso ai diffamatori” che recitava così: “Chiunque abbia divulgato notizie diffamatorie nei confronti dell’on.Cuffaro a mezzo internet, è diffidato a rimuoverle dal proprio sito web. Ricorrendo infatti gli estremi di reato, i colpevoli saranno perseguiti in via giudiziaria, tanto sul piano penale quanto su quello civile per il risarcimento dei danni. In tale direzione, la rete internet è sottoposta ad un attento monitoraggio e sono già state avviate le prime denunce, sia nei confronti dei titolari dei domini, sia nei confronti dei rispettivi internet-provider responsabili in solido. Le somme recuperate saranno integralmente devolute in favore delle famiglie delle vittime di mafia e di altre opere di utilità sociale e caritativa.Continua a leggere

A Dario Fo

Il mondo ti ricorderà come un grande della letteratura. Ma un Nobel in Italia vale meno di un Telegatti se continui a rompere le palle con le tue idee “eretiche”. Non ti verrà affidata la conduzione di nessuna trasmissione, non sarai invitato ai dibattiti televisivi dove si continuerà a discutere dell’assenza degli intellettuali impegnati. Hai fatto politica stando dalla parte più scomoda, contestando l’apparato e tutti gli “emeriti” tromboni blasonati. Questo non è perdonabile. Come non è perdonabile in Italia il coraggio -pardon, la sfrontatezza– di mettere in scena uno spettacolo come “Morte accidentale di un anarchico”, in cui sostenevi la tesi dell’omicidio di Giuseppe Pinelli.anarchico

L’altra faccia della “sfrontatezza”, e tu lo sapevi bene, è la vigliaccheria. Quella di chi oggi e nei giorni a seguire parlerà di te come un “grande italiano”, anche se quando eri in vita avrebbe goduto nel vederti ammanettato. Ci provano sempre, ma con te hanno fallito.

Non ti hanno mai domato.

Hai vinto la partita. Con una risata.

Gianpiero Caldarella

3 ottobre a Lampedusa: la realtà, le commemorazioni e le fiction

Le bare non lasciano intravedere il colore della pelle. Le bare non hanno colore. La morte sì. Il nero domina. Una sorta di buco nero che ci interroga su quello che ci sarà dopo. Spesso però diventa necessario porsi delle domande su quello che è accaduto prima. Una sorta di zona grigia che per ragioni diverse non si riesce a penetrare.

Il 3 ottobre 2013 a Lampedusa è successa una tragedia. Più di 360 morti, una ventina di dispersi, il tutto a circa un miglio dalla costa, nonostante tutti i radar, nonostante la massiccia militarizzazione dell’isola. La stragrande maggioranza del centinaio di superstiti furono salvati da gente dell’isola, diportisti e pescatori, alcuni dei quali hanno fin dall’inizio parlato di una lunga attesa (quasi un’ora) prima che arrivassero le motovedette dei soccorsi. Gente rimasta segnata da quell’esperienza, scioccata nel vedere morire tanta gente davanti ai loro occhi, nel capire che non si potevano salvare tutti e che decidere di tirare in barca qualcuno significava inesorabilmente condannare qualcun altro. Ho parlato con più di uno di questi primi soccorritori, ho visto nei loro visi quel turbamento emotivo che nasce dal rievocare certi momenti che ti segneranno per sempre.-

Vito, ad esempio, con alcuni amici che erano con lui nella sua barca ne ha tirati in salvo 47. “Almeno un minuto a testa ce lo vuoi mettere per tirarli su”, mi dicevano, “considera che erano anche immersi in un mare oleoso, scivolavano”. Parole che spesso si ripetevano parlando con Vito, con Linda, con Marcello, con Grazia. Parole che mi facevano pensare che se altre tragedie dovrebbero essere evitate, non si poteva non ripartire dall’accertamento delle verità. Il che non significa mettere sotto accusa i “soccorritori istituzionali”, ma cercare di capire se qualcosa si è inceppato e perché. Cosa abbiamo fatto invece? Abbiamo trasformato la tragedia in una fiction, in una data sul calendario buona per prendere il volo di stato da Roma o da Bruxelles per farsi fotografare a Lampedusa.

I buoni”, attori prestati alla fiction della politica (e viceversa), ogni anno avranno così l’occasione per mettersi in posa davanti alle telecamere, pronti per un passaggio sul tg delle 20.

I cattivi”, come gli attivisti di Askavusa a Lampedusa, gente che mi ha raccontato di aver visto “gli orrori della guerra, centinaia di bare, senza vedere le bombe scoppiare”, sempre lì a denunciare le cause delle migrazioni, le responsabilità dell’Europa e le narrazioni distorte che si fanno a partire da Lampedusa, rimangono attenzionati dalle forze dell’ordine.

E infine “i brutti”, cioè i primi soccorritori, cioè quelli che in un mondo più umano dovrebbero essere considerati eroi, essere completamente ignorati dalle autorità, dagli organi inquirenti e dalle ricostruzioni giornalistiche, come dei disadattati rispetto al mondo da fiction che hanno creato. Eppure, ricordo che il 3 ottobre 2014 (ero lì), “i brutti” presero le distanze dai buoni scrivendo e firmando questa lettera che la dice lunga sul “coraggio” che ci vuole a fare una commemorazione e sulla forza che è necessaria per dire NO: Eccovi il testo integrale:

“OGGETTO: RIFIUTO ALLA PARTECIPAZIONE DELLA CERIMONIA ORGANIZZATA DAL COMUNE DI LAMPEDUSA E DAL FESTIVAL “SABIR”

In occasione dell’anniversario del naufragio del 3 di ottobre 2013 che ha provocato la morte di 368 persone, io sottoscritto Vito Fiorino, personalmente ed in nome delle sette persone che si sono prodigate con me al salvataggio di 47 vite umane a bordo della mia imbarcazione, RIFIUTO ESPRESSAMENTE di partecipare a qualsiasi cerimonia organizzata dal Comune di Lampedusa. Appena accaduto il fatto, nell’anno trascorso fino ad oggi, non siamo stati interpellati né ascoltati dal primo cittadino, Giusi Nicolini. Continua a leggere

Commemorazioni segrete

Se c’è una cosa che funziona in Italia sono i servizi segreti.

Grazie al loro lavoro possiamo dormire sonni tranquilli, perché la sicurezza dello Stato è nelle loro mani. Mica si tratta di gente che timbra il cartellino e va a fare la spesa al supermercato, qua stiamo parlando di persone che per eccesso di zelo si occupano di garantire pure la sicurezza dei governanti, passati e futuri.

Epperò c’è sempre qualche prevenuto che si incazza perché dice che fanno più del dovuto, ‘sti poveri cristi. Che fino a quando si parlava dei presunti dossier sui magistrati raccolti dal SISMI, uno poteva pensare che tutto sommato pure loro, come personaggi pubblici, non possono pretendere di avere troppi segreti.

E siccome oltre alla sicurezza militare, anche la sicurezza democratica ha una sua importanza, ritorna d’attualità la notizia che pure il SISDE potrebbe aver avuto un ruolo nell’omicidio del giudice Paolo Borsellino e degli agenti della scorta.00710

Se tutta questa storia fosse la trama di un brutto film di James Bond, verrebbe da dire che la Spectre italiana è la magistratura e che in nome di una presunta sicurezza si ha licenza di uccidere la giustizia.

E noi? Da spettatori possiamo sempre permetterci il lusso di tifare per i cattivi, ma sarebbe bene non dimenticare che siamo anche i minchioni dei produttori, quelli che pagano le tasse, compresa quella per l’ipocrisia di Stato.

Perché le commemorazioni non è che si possono fare in segreto, non sarebbero un buon servizio…

Gianpiero Caldarella

(andato in onda su Radio24 nel 2008)