L’ascolto ci rende persone migliori? Domanda inutile o forse formulata male. La maggior parte di voi avranno già pensato: “dipende da cosa si ascolta o da chi si ascolta”. Ok, allora ipotizziamo per un momento di essere in un mondo ideale dove tutto ciò che si ascolta ha un senso, senza dare giudizi di valore, né buono né cattivo, né bello, né brutto, al di là dell’etica e dell’estetica. L’ascolto diventerebbe allora qualcosa di simile ad un interruttore, a un click che mette in “off” la propria parola. Per dirla in parole povere, quando si ascolta non si parla. In questa ipotetica situazione, il tempo dell’ascolto sarebbe quella cosa che ci permetterebbe di avere un equilibrio con il tempo della parola. Che è diverso dal tempo dell’espressione, anche l’ascolto può essere “espressivo”, a tratti emozionante, o distratto, o interessato o altre mille cose. In termini “tecnici”, cioè se entriamo nel campo delle teorie della comunicazione, l’ascolto è il tempo della “ricezione”. Per dirla in termini più “umani”, cosa che preferisco, ascoltare è l’equivalente di ricevere. Viceversa, parlare sarebbe l’equivalente del dare. Dare e ricevere, parlare e ascoltare, è chiaro anche a un bambino che dovrebbe esistere un equilibrio fra le due cose. Eppure tutti noi abbiamo fatto l’esperienza di essere circondati da persone che “non sanno ascoltare”, anzi, proprio non vogliono e lo dimostra il fatto che parlano senza sosta, di ogni cosa, spesso senza cognizione di causa e senza curarsi delle persone che hanno accanto. A prima vista potrebbe sembrare quasi un paradosso, come mai tanta voglia di “dare” in una società sempre più votata all’individualismo e all’indifferenza verso il prossimo? Forse perché -e lì crollano le teorie- il tempo della parola è sempre più narcisistico e ogni volta che ci si trova in situazioni di ascolto forzato, in cui si vorrebbe dire all’interlocutore: “per favore, cerca di tacere un po’, anche solo per cinque minuti”, si ha l’impressione che in realtà ti stiano succhiando non solo il tempo ma anche l’energia. Non si tratta più di dare e ricevere, ma di prendere, di forzare.

Il piacere di ascoltare, di “ricevere” sembra scomparso, relegato alle situazioni “standardizzate”, come ad esempio l’ascolto di un concerto, o la visione di un film, e anche lì spesso c’è che non sa stare in silenzio. Cambiando senso, cioè spostandoci sulla visione, trionfa il voyeurismo, quella tendenza ad essere spettatori inerti di visioni che diventano sempre più sconce. Guardare senza essere visti, che sia in una camera da letto o davanti allo schermo di una tv che trasmette talk-show e notiziari “al passo con i tempi”, ci rende testimoni del vuoto di conoscenza che riempiamo con un’overdose di immagini. Video che abbassano sempre di più la soglia dell’imbarazzo, che eliminano del tutto la sensazione di essere complici di un sistema, prima ancora che testimoni.
Ad esempio, non sono pochi quelli che godono vedendo le immagini di un barcone affondato, e nella maggior parte dei casi non si tratta di persone che hanno avuto un’esperienza diretta di contatto con i migranti o che hanno a casa la collezione completa de “La difesa della razza”, di mussoliniana memoria. È successo che a forza di guardare solo certe immagini e ascoltare solo certe parole, hanno inteso che questa è l’unica interpretazione possibile del mondo. Due più due fa quattro. E questo è tutto, poi cosa significhi due e cosa significhi quattro non li riguarda. La matematica non è un’opinione, è vero. Questo lo sappiamo e lo sanno anche i voyeurs delle tragedie. Ma a questi ultimi hanno mai detto cos’è la matematica? Ci hanno mai riflettuto? Per arrivare a questo passo bisognerebbe chiudere gli occhi e restare in silenzio per un po’. Prendersi il tempo di ascoltare. Quasi un’eresia di questi tempi tempi, un’ingenuità imperdonabile. Un esempio per capire quanto ognuno di noi abbia sacrificato questa facoltà, sarebbe sufficiente prendere il mano il proprio smartphone e vedere quanti video e quante foto ci stanno dentro e poi vedere quanti files audio ci sono in memoria. Nella maggior parte dei casi, il microfono dello smartphone non è mai stato utilizzato. Il motivo? Pensiamo che il video (corredato dell’audio) ci dia qualcosa di più. Vera o falsa che sia questa asserzione, ciò che dimostra è che il troppo stroppia e storpia, distorce la realtà. Perché nella realtà tutti abbiamo fatto l’esperienza di ascoltare una musica chiudendo gli occhi e non l’abbiamo fatto perché avevamo il trapano del dentista davanti, ma per assaporarla meglio, per gustarla pienamente. E che dire della radio? In un mondo di “guardoni”, dovrebbe essere scomparsa da tempo, eppure sono in Italia ci sono milioni di persone che preferiscono la radio alla tv. Sono i “radioascoltatori”. Che anche se intervengono in diretta, non diventano “radioparlanti”, rimangono ascoltatori, cioè tacciono, anche se parlano. Da veri buongustai della parola.
Gianpiero Caldarella